Modo Antiquo

Il Libro Cuore (forse)


da
Il Libro Cuore (forse)
Mario Cardinali Editore, 1998, pp. 103

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Abnegazione.

L’anno è appena iniziato, ed ecco subito una cattiva notizia. Stamane, quando si fece sull’uscio cogli occhi gonfi di pianto il nostro buon bidello Mallio — quel poveraccio che perse due gambe e l’unghia lunghissima del mignolo nella battaglia di Lupino — tutti sussultammo. Recava con sé una circolare tutta inzuppa di lagrime e pinot grigio in cui s’annunziava che il nostro buon direttore era molto malato e non sarebbe venuto a scuola pei prossimi tre mesi.

Il nostro amato maestro colitico serrò le mascelle, si terse coll’indice l’angolo dell’occhio di sotto all’occhialetto e poi disse col suo vocione da basso tuba: — Oggi è un giorno di grande mestizia per la scuola intiera. E’ come se vostro padre fosse improvvisamente mancato, escluso naturalmente il Panicchi che tanto gli è già stiantato il babbo tre mesi fa. Quel grand’uomo del vostro direttore, buono e dal cuore nobile, che ogni mattina sollecito e premuroso bada che tutti voi entriate in classe e svolgiate con diligenza il vostro compito, da oggi non potrà più essere qui a vegliar su di voi. — E qui il Soffioni esplose in un pianto dirotto che trascinò tutta la classe in singulti ed ululati. — Egli, pensate — continuò il nostro buon maestro poliomelitico — è stato còlto dal un morbo maligno che ora lo rode; e pur negli spasmi del dolore il suo pensiero è comunque rivolto a voi fanciulli, che con le vostre bizze e intemperanze l’avete condotto a quello stato pietoso; egli s’è finalmente ammalato dopo aver speso tutto sé stesso per il vostro bene, razza di carogne ingrate, ed ora giace sur un lettuccio di dolore a combattere contro un male che non gli dà tregua, ma lo fa comunque pensando a voi, merdoni assassini che l’avete sulla coscienza. —

Dopo questa toccante commemorazione il nostro buon maestro cirrotico ci fece alzare tutti in piedi, compreso quello zoppino dello Zampieri, per recitare a voce alta il rosarione mistico incrociato a squadre per la guarigione del nostro amato direttore. Noi tutti lo snocciolammo colla voce rotta dal pianto e con il pensiero rivolto a quel cuore nobile. Ah, quanti cari ricordi mi s’affollavano ora nella mente! Quella volta, per esempio, che il Butini giunse a scuola in ritardo e, varcando affanato il tetro portone, andò a sbattere contro quella montagna d’uomo che ringhiava e schiumava da sotto al suo barbone nero: — Dove credi d’andare, brutto sacco di merda, lo sai che io ti distruggo, io ti rovino?! — Ma si sa ch’egli è solito dire ogni sorta di cose spaventevoli a’ fanciulli per ammonirli, ma poi non ha cuore di metterle in pratica; tant’è vero che al Butini gli appioppò solamente quattro manrovesci anellati sulla nuca paonazza, gli fece bere l’inchiostro e lo tenne per un’oretta in ginocchoni sulle ghiande con la matita da ornato nel culo. Oh, caro e zelante direttore, che sapevi tener la disciplina con l’umanità d’un padre!

Tra una lagrima e l’altra, mi sovveniva poi di quella volta che fu chiamata a scuola la madre del Rapetti perché il nostro amato maestro trombotico non ne poteva più delle intemperanze di quel discolo e stava per iscacciarlo affatto da scuola; ma quel grand’uomo del nostro direttore s’interessò al caso, e volle far venire quella povera donna nel suo ufficio in forma privata per vedere di cavar comunque del bene da un frangente sì tristo. Serrato dunque bene l’uscio, egli tirò fuori subito l’argomento e, senza tanti preamboli, glielo fece toccare con mano in tutta la sua durezza; a quel punto — giacché egli è sempre pronto ad ascoltare con pazienza il prossimo — volle che anch’ella ci mettesse bocca. E pur non pareva darsi pace, perché gli sembrava che il problema non fosse stato introdotto abbastanza approfonditamente. E poiché la disgraziata pareva lì per lì non darsene intesa, fu chiamato il solerte bidello Mallio che col suo bastone in mano, fuor dell’uscio, si era già appassionato alla vicenda. La tapinaccia fu infine condotta a ragione, ed il nostro buon direttore poté finalmente dirsi pienamente soddisfatto d’esser venuto a fondo della cosa; accertò la sciagurata che non aveva da star più in apprensione, poiché a quel punto il problema s’era completamente sgonfiato. La buona donna se ne uscì confusa e col viso coperto di rossore, certo per la vergogna d’avere un figliuolo sì discolo, ma con la consolazione che almeno per quella volta non sarebbe stato bandito da scuola. Ah, santo e paziente direttore che sapevi riportare la pace e la concordia!

Mi sovvenne infine di quella volta che un povero ciechino della seconda rimase appeso colla giubbina all’asta della bandiera che spenzola fuori dalla facciata, al terzo piano; sicuramente qualche compagno l’aveva attaccato lì per burla o per qualche giuoco innocente, ma tanto quell’egoista dava in istrepiti, sospeso a venti metri dal selciato, che tutto quel trambusto finì per richiamare il nostro buon direttore. Egli si precipitò in classe e, fattosi sulla finestra, s’accorse che quell’infelice stava ormai appeso all’asta della bandiera cor uno sdrucito lembo della misera giubbina. Allora col suo vocione da bombarda zittì tutti e disse: — Quel che voi avete fatto oggi non è una burla, ma un atto gravissimo che getta disonore e disdoro su tutti voi e sulla scuola intiera. Voi — e qui coll’indice puntò a ruota i visi impauriti di tutta la classe — avete compiuto un gesto oltraggioso ed infame contro ciò dovreste avere di più caro: l’onore della nostra amata bandiera — Tutti ristettero come di pietra col capo chino per la vergogna. Visto allora che la sua rampogna era andata a effetto, quel sant’uomo del direttore concluse: — Per questa volta non voglio sapere chi è stato il resposabile di questo gesto odioso; mi basterà che ciascuno di voi domani porti un fiore sulla tomba di Vittorio Emanuele in segno di riparazione. E poi tirate giù di là quel menomato, che continua ad oltraggiare il nostro sacro tricolore! — E subito il fido bidello Mallio scrollò giù, ajutandosi coll’asta della lavagna, quel disgraziato che non ne voleva sapere di togliersi di lì.

Caro, amato e venerato direttore, che col tuo esempio ci hai instillato le massime del retto agire! E ora soffri per cagion nostra!

Col cuore gonfio d’angoscia e cogli occhi rossi di pianto uscimmo tutti al sonare del finis. Solo il Batacchi rimase ancora un po’ in classe, perché col suo braccino morto è sempre l’ultimo a finire la cartella; allora il bravo bidello Mallio lo ajutò ad affrettarsi slegandogli dietro il cane Gorgo, il botolo ringhioso che il nostro amato direttore gli ha lasciato in custodia finché egli non sarà guarito. Alla vista di quell’animale vivace e scattante che correva dietro al Batacchi verso il portone d’ingresso, mi cangiò l’angoscia in isperanza e pensai: — Sì, amato direttore, tu tornerai presto tra noi! — E mi strinsi tra le braccia di mia madre.



Una gita al ricovero.

Oggi, se avessimo copiato per tempo il racconto de Il Bersagliere sordomuto catturato dagli austriaci e gonfiato dai cazzotti perché non parlava, il nostro buon maestro colitico ci avrebbe serbato una sorpresa. E difatti così fu; appena quel ritardatario del Lentini — quello degli scacchi di midolla rafferma — ebbe consegnato il suo lavoro, il nostro buon maestro cirrotico si schiarì quel suo vocione da controfagotto e disse: — Bravi figliuoli, vi siete portati bene quest’oggi. Per premio alla vostra diligenza vi condurrò in gita all’Ospizio degl’Infelici, acciocché possiate, mirando quei disgraziati, insuperbirvi di voi e diventare uomini; va da sé che quell’infelice del Magrini, colla sua gamba morta, può rimanere in classe, tanto queste cose le sa già e poi ci sarebbe di peso. — Tutta la classe scoppiò in un Evviva! altissimo sul quale il Maneschi, il figliuol del trippajo, collocò finalmente la scorreggia lunga mezzo metro che da due ore lo rendeva inquieto e distratto.

L’Ospizio degl’Infelici si trova in Viale Bava Beccaris, in un bellissimo slargo tutto coperto di platani che l’incipiente primavera popola di garruli fringuelletti e placide tortorelle; noi lo raggiungemmo marciando festosi al canto di Soldatin che cazzo vuoi, chi segnando il tempo colla riga sulla cartella, chi battendo il piede a segnare il passo, chi marcando il ritmo a suon di nocchini a girare sugli orecchi del Panicchi, quella canaglia che si rifiutò di baciare suor Bruno durante la festa di beneficenza in favore delle Piccole Figlie del Divin Sudore. Giunti che fummo sotto il grande portone dove campeggiava, inciso su una grande lastra di marmo polito, il motto Rispetto / Ardore / Sagrificio, il nostro buon maestro epilettico si tolse il cappello divotamente, e lo tolse anche al distratto Rapini cor una manata da tre chili data bene sulla nvca. Tutti entrammo col cuor gonfio di trepidazione in quell’antro solenne e bujo ove albergavano quegli sfortunati che mia madre più volte mi rammentava quando facevo i capricci per non volere mangiare il Fagiano gratin tartufato alla Savarin, o i Tournedos di filetto alla Senatore Couteaux.

Fummo condotti in un grande stanzone ove, su delle pancacce sparse, sedevano ora dei poveri zoppini, ora dei piccoli focomelici, laggiù dei piccoli ciechini, più in là dei bambini che, abbandonati dai genitori, vivevano della pietà del prossimo. Quella vista ci scosse fin nel profondo dell’animo, e il Buccioni non la finiva di soffiarsi il naso e rasciugarsi le lagrime, tant’è che non gli bastò la pezzòla, sicché dovette continuare colle marsine dei poveri infelici appese all’attaccapanni, ché tanto quelli non si potevan ribellare per via della loro infermità. Il Filicchi per la grande commozione ebbe una mossa repente di corpo, e preso dallo sgomento di farsela addosso si calò le brache sur un grosso vaso che era lì accanto, guastando in un momento tutta la marmitta del rancio per 316 infelici; alla vista di quello spettacolo penoso il Gavitelli si travagliò di stomaco e vomitò, sul lettino d’un povero zoppino che gli era a fianco, una betoniera di lenticchie babilonesi che gli ritornavano a gola da due giorni; a tal vista il Batacchi, per cercare di salvare qualcosa dal disastro, cercò sfilare d’un colpo la sottocoperta dal materasso facendo rovinare lo zoppino di ginocchi sull’impiantito di graniglia. Il maestro accorse subito, ma nella concitazione inciampò in un cane da ciechi assopito sur uno zerbinetto accanto al suo padroncino, e tosto l’animale, svegliandosi di colpo, s’avventò ringhiando al polpaccio d’un gobbino che passava di lì cor un pitale colmo di piscio che fu scagliato in pieno petto al direttore dell’Ospizio giunto a vedere cosa fosse tutto quel trambusto. Il nostro maestro e tutti noi fummo cacciati via a calcagnate nelle gengive; qualcuno ci tirò dalla finestra anche una gavetta di lesso coi porri che centrò il Buccioni tra collo e colletto.

Ci allontanammo accompagnati dalle maledizioni di tutti, e fu allora che il nostro buon maestro artritico s’arrestò, e rivolgendosi a noi disse: — Voi avete visto, figliuoli, come siano intrattabili e vendicativi gl’infelici; ora te vagli a far del bene! — Il nostro caro maestro volle accompagnare questa lezione di vita con un esempio; infatti, appena giunto in classe, appioppò subito uno stiaffo anellato al Magrini, quello della gamba morta che ci aveva aspettati ramingo tutta la mattina.

Sonò il finis, ed io corsi tra le braccia di mia madre, ma una punta d’amarezza mi rimaneva nel cuore: sapevo che a pranzo ci sarebbe stato il Pasticcio Périgord all’Armagnac, ed io non lo potevo soffrire.

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